UNA GUERRA COMMERCIALE ALL’EUROPA

Mentre l’Europa soffre le ricadute economiche del conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti ne traggono vantaggi politici e profitti economici. Nel momento di maggiore difficoltà, l’Amministrazione Biden vara misure protezionistiche per sottrarci investimenti nei settori più strategici. Serve subito una risposta comune europea per competere con le grandi Potenze nel Mondo Nuovo.

La riesplosione della guerra in Ucraina sta accelerando la regionalizzazione politica ed economica, se ne sono accorti perfino al World Economic Forum di Davos, dove il tema di quest’anno era appunto «La Cooperazione in un Mondo Frammentato». La globalizzazione, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi tre decenni, è terminata. Gli Stati Uniti, che ne erano i garanti attraverso la proiezione della loro forza militare su scala planetaria, non sono più interessati all’interconnessione mondiale. La Cina, cresciuta proprio sfruttando i benefici derivanti dalla globalizzazione di matrice americana, è diventata la principale minaccia per la Casa Bianca, che ora punta a riscrivere la cartina dell’economia internazionale. Le catene di approvvigionamento vanno accorciate. Washington vuole riaffermare la propria supremazia sull’Occidente allargato – da Tallin in Estonia a Seul in Corea, dal Mar Baltico al Mar Giallo – indebolire e isolare Mosca e contenere l’ascesa di Pechino.

Gli ancoraggi della globalizzazione si stanno allentando e il nuovo ordine internazionale è spinto verso la frammentazione. Nelle turbolenze di questa deriva dei continenti si riafferma necessario e prepotente il ritorno dell’intervento dello Stato nell’economia, che non può più essere abbandonata alla discrezione della mano invisibile del libero mercato. I dogmi liberisti sono infranti in nome del superiore interesse nazionale di chi vuole pensare e agire da grande Potenza. It’s not economy, but geopolitics, stupid! Perché sono gli imperativi geopolitici – e non quelli economici – a condizionare le strategie imperiali.

Nel nostro primo quaderno cartaceo – Il Mondo Nuovo – abbiamo definito quella in Ucraina una «guerra contro l’Europa», perché abbiamo dimostrato il coinvolgimento e gli interessi degli Stati Uniti nel provocare un conflitto che ha costretto l’Europa all’ostilità contro la Russia. Così ora mentre l’Europa viene logorata dalle ricadute economiche di una guerra che si annuncia permanente, gli Stati Uniti ne traggono vantaggi politici e profitti economici.

Lo scorso Giugno, per la prima volta nella storia, dopo che gli Stati europei hanno iniziato a importare più gas – a prezzi più alti – dall’America che dalla Russia, Washington è diventato il primo esportatore al mondo di gas naturale liquefatto. Il Dipartimento di Stato inoltre ha reso noto che nel 2022 l’esportazione di armi statunitensi è aumentato del 49,1% rispetto all’anno precedente. Vantaggi competitivi che gli Stati Uniti vogliono consolidare con l’adozione del «CHIPS and Science Act» e dell’«Inflation Reduction Act», per essere «nuovamente alla guida del mondo per i prossimi decenni», ha promesso Biden.

Il «CHIPS and Science Act» ha il dichiarato obiettivo di contrastare la Cina, riducendo innanzitutto la dipendenza tecnologica di Washington da Pechino. Il Congresso ha approvato una misura complessiva da 280 miliardi di dollari tra sussidi per i produttori di semiconduttori e investimenti in tecnologia e scienza. «Questo aumento dei fondi per la ricerca e lo sviluppo – ha annunciato Biden al momento della firma – garantirà agli Stati Uniti la leadership mondiale nelle industrie del futuro – dall’informatica quantistica, all’intelligenza artificiale, alle biotecnologie avanzate». La Casa Bianca vuole «vincere la competizione economica del XXI secolo» e questo è considerato un passo necessario per garantire che l’America mantenga il suo primato scientifico e tecnologico.

Presentata come una legge per affrontare la crisi climatica e combattere l’inflazione, l’«Inflation Reduction Act» – in vigore dal 1 Gennaio 2023 – prevede invece lo stanziamento di 369 miliardi di dollari per intraprendere quella che Biden ha definito «l’azione più aggressiva di sempre […] nel rafforzare la nostra sicurezza economica ed energetica». La legge prevede di sostenere con crediti d’imposta tutta la filiera connessa alla produzione di energia «pulita» negli Stati Uniti, ma il reale impatto sul clima e sull’inflazione sarà secondario. Con questa mossa la Casa Bianca ha di fatto inaugurato un New Deal protezionistico che mira a favorire il «Made in America», incurante delle ripercussioni sull’economia dei suoi più stretti alleati.

Da quando l’Europa ha deciso di non voler più fare affidamento sui contratti a lungo termine con la Russia, che ci garantivano forniture costanti di gas e petrolio a prezzi agevolati, i costi energetici sono diventati inferiori negli Stati Uniti e se a questo si aggiungono le agevolazioni e i sussidi statali messi in campo dall’Amministrazione Biden, si capisce perché alcuni tra i principali colossi industriali europei stanno pianificando di investire e spostare la produzione sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico.

Il Presidente Esecutivo di Iberdrola – la più grande utility europea per valore di mercato – ha dichiarato che gli incentivi contenuti nell’«Inflation Reduction Act» hanno reso gli Stati Uniti molto più attraenti per gli investimenti rispetto all’Europa. La società energetica spagnola ha infatti intenzione di investire oltreoceano quasi la metà della sua quota destinata alle energie rinnovabili. Anche ENEL vuole approfittare di tali benefici e ha annunciato la progettazione di una fabbrica di pannelli e celle solari per un valore che – secondo le stime del Wall Street Journal – potrebbe avvicinarsi o addirittura superare il miliardo di dollari. Il credito d’imposta fino a 7.500 dollari per l’acquisto di veicoli elettrici, a patto che vengano assemblati nel Nord America, ha invece spinto il Gruppo Volkswagen a valutare la possibilità di creare il primo stabilimento Audi negli Stati Uniti.

Northvolt – definita dal Financial Times come «la più grande speranza europea nel settore delle batterie» – sta valutando la possibilità di posticipare la costruzione di una fabbrica in Germania, preferendo espandersi prima oltreoceano. «L’Inflation Reduction Act ha cambiato le dinamiche per i fornitori» ha dichiarato il portavoce di Northvolt. «L’intera catena del valore sta guardando al Nord America invece che all’Europa». Della stessa opinione è Solvay, il gruppo chimico belga che recentemente ha annunciato di aver stretto una partnership da circa 850 milioni di dollari con il gigante petrolchimico messicano Orbia negli Stati Uniti. L’obiettivo è quello di creare il più grande sito di fluoruro di polivinilidene – componente necessario nella composizione delle batterie elettriche – del continente americano. La joint venture Solvay-Orbia riceverà in cambio del suo investimento una sovvenzione di 178 milioni di dollari.

Questi sono solo alcuni esempi, forse i più eclatanti, tuttavia utili a lanciare l’allarme e comprendere il pericolo che corre l’economia europea. Il protezionismo «aggressivo» perseguito dalla Casa Bianca per sostenere l’industria americana punta a sottrarci capitali e produttività nei settori più strategici, proprio nel momento in cui siamo in maggiore difficoltà. Si tratta di pratiche di concorrenza sleale, in violazione delle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, tanto che anche l’Economist, in uno dei suoi ultimi editoriali, parla apertamente di «abbandono delle regole del libero mercato» da parte degli Stati Uniti. Le piccole e medie imprese – cuore produttivo dell’Italia e non solo – non hanno la forza economica per delocalizzare e usufruire di queste opportunità, di cui soltanto i colossi multinazionali potranno avvantaggiarsi.

Se l’Europa non prenderà presto delle contromisure, il rischio di accelerare la deindustrializzazione del Vecchio Continente è più che concreto. In Italia però l’argomento viene completamente ignorato dal dibattito pubblico e nessuno – né al Governo, né tanto meno all’opposizione – ha voluto sollevare la questione. Sintomo della scarsa importanza che la nostra classe politica e i principali organi di informazione rivolgono ai grandi temi della politica estera e dell’economia internazionale.

In Germania e in Francia il tema è invece noto e discusso dall’opinione pubblica. L’SPD, il Partito Socialdemocratico Tedesco che ha espresso il Cancelliere in carica – Scholz – ritiene necessario un finanziamento europeo attraverso la Banca Europea per gli Investimenti e una revisione delle regole comunitarie per consentire l’aumento dei sussidi nazionali. Il Presidente della Repubblica Francese – Macron – invoca un «risveglio europeo», suggerendo l’adozione di un «Buy European Act», una legge che protegga l’industria europea attraverso aiuti di Stato, per contrastare la concorrenza di America e Cina. Recatosi a Washington il 1 Dicembre per incontrare Biden alla Casa Bianca, Macron ha però ammorbidito i toni, chiedendo una revisione dell’«Inflation Reduction Act», senza ottenere alcun risultato. Gli Stati Uniti proseguono nel loro «business».

Lo scorso Agosto la von der Leyen esultava alla firma dell’«Inflation Reduction Act», credendola una legge in favore dell’economia dell’energia pulita, salvo poi – mesi dopo – riconoscere che potrebbe «portare a una concorrenza sleale» contro l’Europa. La Presidente della Commissione Europea ha capito – con colpevole ritardo – che bisogna dare una risposta, serve una «Legge Europea per la Riduzione dell’Inflazione» per «facilitare gli investimenti pubblici nazionali» e valutare «ulteriori investimenti pubblici europei». Ora sostiene la necessità di una «soluzione strutturale» sotto forma di un Fondo Sovrano Europeo per sostenere una «politica economica europea comune con finanziamenti europei comuni», una proposta però che – per sua stessa ammissione – deve ancora essere formulata e potrebbe essere presentata non prima dell’Estate.

La von der Leyen ha ragione quando dice che «i prossimi decenni vedranno la più grande trasformazione industriale dei nostri tempi, forse di tutti i tempi. E coloro che svilupperanno e produrranno la tecnologia che sarà alla base dell’economia di domani avranno il massimo vantaggio competitivo». Proprio per questo motivo non possiamo attendere oltre. Serve subito una risposta comune europea per competere con le grandi Potenze.

Ci era stato detto che l’elezione di Biden avrebbe riavvicinato le due sponde dell’Atlantico dopo la turbolenta presidenza Trump e che l’invasione della Russia in Ucraina avrebbe ricompattato l’Occidente, ma proprio nel momento in cui soffriamo le conseguenze economiche della guerra – l’Unione Europea infatti ha chiuso il 2022 con un’inflazione annua al 10,4% e secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale circa metà degli Stati membri cadranno in recessione nel 2023 – gli Stati Uniti hanno dichiarato una guerra commerciale all’Europa. Il nuovo corso protezionista inaugurato dall’Amministrazione Biden prosegue sulla scia del «Make America Great Again» di Trump. L’America tornerà di «nuovo grande» a nostre spese.

«America First». L’America prima di tutto. Soluzione di continuità da Trump a Biden. Washington deve riaffermare la sua leadership mondiale e il suo dominio sull’Occidente allargato. Noi Europei dobbiamo iniziare a domandarci se gli Stati Uniti sono davvero nostri alleati, perché veniamo trattati come «clienti». Privati di sovranità politica, autonomia militare e capacità economica, siamo costretti a sviluppare una pericolosissima dipendenza dall’America.

L’Europa non deve ora cadere nell’errore di dividersi, questa potrebbe anzi essere l’occasione per rafforzarsi se solo decidesse di affrontare i grandi temi del momento: la pace in Ucraina, la riapertura di un dialogo con la Russia e lo sviluppo di una strategia comune per l’approvvigionamento di energia e terre rare per il rilancio di una politica industriale continentale. L’Europa non può andare a «farsi fottere», come vorrebbero a Washington, non può rimanere la periferia dell’Occidente, ma deve riconquistare la propria autonomia e la propria centralità nel nuovo ordine internazionale.