LA POLITICA ESTERA DEGLI STATI UNITI CON TRUMP

Nel definire la politica estera della propria Amministrazione, il Presidente deve assecondare gli imperativi geopolitici e gli interessi strategici degli Stati Uniti. Trump potrebbe davvero spingere per un cessate il fuoco in Ucraina, ma aggraverà la guerra commerciale contro l’Europa e non farà a meno della NATO per «tenere sotto» il nostro Continente. In Medio Oriente sembra voler riproporre gli «Accordi di Abramo» per favorire Israele, isolare l’Iran e imporre – da remoto – un nuovo assetto nella Regione. Le principali attenzioni saranno rivolte verso l’Indo-Pacifico per intensificare il contenimento della Cina.

La rielezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti ci impone di analizzare quella che potrebbe essere la proiezione della politica estera di Washington nelle Regioni che più ci preoccupano, ovvero la nostra Europa e il Medio Oriente, nonché la posizione che l’America assumerà nei confronti della Cina, unica grande Potenza in grado di sfidarne il primato su scala globale.

Con questo non vogliamo sopravvalutare la funzione del Presidente e la sua capacità decisionale, poiché sappiamo che il suo margine di manovra è inevitabilmente limitato dalle contingenze interne e internazionali, dalla necessaria collaborazione con le varie Agenzie e i Dipartimenti che costituiscono il cosiddetto «Deep State» – lo «Stato Profondo» – ma soprattutto dagli imperativi geopolitici, che trascendono qualsiasi Amministrazione. Vi sono infatti delle priorità che non vengono dettate dall’agenda dei Democratici o dei Repubblicani, bensì dall’interesse nazionale a cui sia Trump che Biden – e i loro predecessori – hanno dovuto allinearsi.

Il compito a cui è chiamato l’inquilino della Casa Bianca è quindi quello di interpretare le esigenze esterne della Nazione e farsi sintesi delle diverse richieste provenienti dall’interno del Popolo, riallineando gli interessi nazionali e la volontà popolare per far sì che gli Stati Uniti mantengano lo status eccezionale di unica super-Potenza. Trump è il protagonista richiamato per frenare il declino dell’Occidente e rinnovare la fede messianica nel «Secolo Americano», non a caso i motti che caratterizzano il Tycoon sono «Make America Great Again» e «America First».

GLI STATI UNITI E L’EUROPA

Trump ha sempre insistito nella convinzione che – con lui alla Casa Bianca – Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina. La promessa di negoziare un accordo di pace – «in 24 ore» – tra Mosca e Kiev è così diventata uno dei punti fermi della sua campagna elettorale, anche per marcare una netta differenza con l’Amministrazione Biden su questo tema.

Il nuovo Presidente deve evitare che, in un momento in cui lungo tutta la linea del fronte si è accumulata un’insostenibile tensione politica e militare, un’escalation ci faccia precipitare in una nuova Guerra Mondiale, questa volta con gli arsenali ricolmi di ordigni nucleari. Al tempo stesso non può però permettere che un eventuale disimpegno dal teatro ucraino metta in discussione il rango che gli Stati Uniti occupano nella gerarchia internazionale, come avvenuto dopo il rocambolesco ritiro dall’Afghanistan.

Raggiungere la pace, ossia creare le condizioni e offrire le garanzie che possano convincere sia la Russia che l’Ucraina a non riprendere le ostilità è pressoché impossibile e nemmeno conveniente per gli Stati Uniti, perché si priverebbero della futura possibilità di riaccendere – all’occorrenza – la guerra per procura in qualsiasi momento. Tuttavia è quasi certo che Trump si impegnerà sinceramente per far sottoscrivere ai belligeranti un accordo per un cessate il fuoco che congeli momentaneamente il conflitto. Una tregua provvisoria anziché una pace definitiva. D’altronde gli Ucraini sono ormai allo stremo delle forze, mentre si può affermare – senza timore di smentita – che Washington abbia già raggiunto i suoi obiettivi strategici.

Non dimentichiamo che l’Ucraina rappresenta un perno geopolitico fondamentale negli «imperativi geo-strategici» per il «primato dell’America», come riconobbe Brzezinski ne La Grande Scacchiera. Privata dell’Ucraina, si sarebbe infatti potuto provocare «un allontanamento della Russia dall’Europa e una sua deriva verso l’Asia». Oggi però Mosca è forse troppo pericolosamente vicina a Pechino.

Con la guerra si è potuto tranciare quel cordone ombelicale che collegava l’Europa e la Russia, così mentre noi soffriamo le ricadute economiche del conflitto, la Russia è impantanata da quasi tre anni in un conflitto che non riesce a risolvere. La porzione di Ucraina che non è stata conquistata dall’Armata Russa è ormai definitivamente sottratta dalla sfera d’influenza del Cremlino e trasformata in un territorio per sempre ostile a Mosca, mentre la NATO, risorta dalla «morte celebrale» con il riemergere dell’antagonismo contro il nemico designato, si è addirittura allargata, includendo ora anche la Svezia e la Finlandia.

Ci sono anche altre ragioni per le quali lo «Stato Profondo» potrebbe permettere alla Casa Bianca di raggiungere un cessate il fuoco. L’Amministrazione Biden ha investito in Ucraina più di 174 miliardi di dollari, di cui 66,5 miliardi in aiuti militari, almeno 30,75 miliardi a sostegno diretto per il bilancio del Governo di Kiev e 5,2 miliardi in aiuti umanitari attraverso USAID. Potrebbe quindi essere giunto il momento di passare all’incasso dei «dividendi» e un «businessman» come Trump non si farà sfuggire l’affare.

Mentre Russi e Ucraini muoiono sul campo di battaglia in questa ennesima guerra civile tra Europei, il Rappresentante Speciale degli Stati Uniti per la Ripresa Economica dell’Ucraina nominato da Biden ha messo gli occhi sul «business» della ricostruzione, un affare stimato 486 miliardi di dollari dalla Banca Mondiale. Egli ha fatto sapere che «il potenziale dell’Ucraina è straordinario. Ha enormi opportunità nell’agricoltura, nell’energia, nei metalli e nelle miniere, nei minerali critici e in una serie di settori diversi». Dopo nemmeno due settimane dalla sua nomina aveva già incontrato trenta aziende private che si erano dette disposte a partecipare agli investimenti.

Nel frattempo JP Morgan e BlackRock si sono assicurate l’incarico da Zelenskij per creare il Fondo per lo Sviluppo dell’Ucraina, una piattaforma finanziaria che gestirà gli investimenti esteri – pubblici e privati – per la futura ricostruzione del Paese.

Chevron, Exxon e Halliburton stanno intensificando i dialoghi con NaftoGaz, il cui Amministratore Delegato aveva dichiarato che non c’è «alcuna intenzione o iniziativa di prorogare» l’accordo che consente il transito di gas dalla Russia all’Europa attraverso l’Ucraina. Inoltre ha reso noto che intende sfruttare la collaborazione dei colossi energetici statunitensi per aumentare a tal punto la produzione domestica da far diventare l’Ucraina un «esportatore netto» di gas naturale.

Spartiti i profitti, all’Europa sarà chiesto di farsi carico delle spese a fondo perduto per la ricostruzione e per la difesa.

Ma torniamo alla soluzione che Trump ha annunciato. I dettagli sono ancora ignoti. Il Vice-Presidente – Vance – ha però rivelato che la proposta consisterebbe nell’interrompere le ostilità sull’attuale linea di contatto, lasciando alla Russia il possesso de facto ma non de jure – ossia senza alcun riconoscimento formale – dei territori conquistati in Crimea e nel Donbass, con l’impegno di creare una zona de-militarizzata lungo il fronte e fortificare le difese ucraine come deterrente per evitare una nuova invasione. Quel che resta dell’Ucraina sarebbe uno Stato sovrano e indipendente, ma neutrale, interrompendo quindi il percorso di adesione alla NATO – autentico casus belli del conflitto – come garanzia da offrire al Cremlino. Anche se non entrerà formalmente nell’Alleanza Atlantica, è però certo che il personale NATO già presente in Ucraina vi rimarrà, ma almeno Putin avrà la sua vittoria – mutilata – da raccontare ai Russi.

L’intenzione del Presidente è avvalorata dall’annuncio di voler nominare il Generale Kellogg come Consigliere e Inviato Speciale per l’Ucraina e la Russia al fine di «garantire la pace attraverso la forza». Kellogg ha infatti già precisato che l’approccio «America First non è isolazionista, né un invito a ritirare l’America dall’impegno nel Mondo». Si tratta infatti di razionalizzare lo sforzo imperiale degli Stati Uniti e la soluzione di Trump sarebbe «un percorso da seguire in Ucraina in cui l’America può mantenere i propri interessi prioritari e allo stesso tempo svolgere un ruolo nel porre fine alla più grande guerra in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale».

Sebbene pare che lo stesso Zelenskij si sia rassegnato all’impossibilità della completa riconquista dei territori occupati e annessi dalla Federazione Russa, l’attuale Presidente rappresenta ormai il volto della guerra a oltranza. L’attuazione della soluzione della nuova Amministrazione Trump potrebbe dover passare attraverso la sua deposizione – preferibilmente per via democratica, attraverso nuove elezioni. Zelenskij è inoltre ritenuto troppo vicino a Biden, tanto che si rifiutò di indagare sull’oscuro ruolo ricoperto dal figlio – Hunter Biden – inserito, all’indomani di Euro-Maidan, quando il padre era il Vice-Presidente dell’Amministrazione Obama, nel Consiglio di Amministrazione di una società energetica in Ucraina – Burisma Holdings – sotto indagine con l’accusa di riciclaggio di denaro.

Chi guiderà l’Ucraina non dovrà più ostinarsi nella riconquista territoriale della Crimea e del Donbass – illusione che quotidianamente si infrange sul campo di battaglia – e sull’imporre a ogni costo una sconfitta strategica alla Russia.

Si aprirebbero quindi le porte a figure come l’ex Generale e Comandante in Capo delle Forze Armate d’Ucraina Zaluğnij, attualmente Ambasciatore nel Regno Unito, allontanato forzatamente dal fronte e dai riflettori, perché stava sottraendo consensi al Presidente. In tempi non sospetti il Generale aveva pubblicamente riconosciuto il fallimento della seconda contro-offensiva e non ha mai escluso a priori la possibilità di riaprire un dialogo negoziale con la Russia. Secondo gli ultimi sondaggi Zaluğnij godrebbe perfino di ottima popolarità tra gli Ucraini.

Un’alternativa potrebbe essere il Sindaco di Kiev – Kličko – che non ha mai risparmiato critiche contro Zelenskij, ritenendolo colpevole di non aver preparato adeguatamente il Paese in vista della riesplosione della guerra e di aver permesso ai Russi di raggiungere i sobborghi della Capitale già nei primi giorni dell’invasione, ma anche di aver eccessivamente accentrato il potere nelle sue mani, lanciando l’allarme dell’autoritarismo. Oppure si potrebbe decidere di ripiegare sull’usato sicuro, puntando magari sull’ex Presidente Porošenko.

Un cambio al vertice del Governo a Kiev, oltre a facilitare l’iniziativa diplomatica, accontenterebbe anche il Cremlino, che potrebbe così inventarsi di aver finalmente «de-nazificato» l’Ucraina, in tal modo i sacrifici sofferti nell’improvvisata «Operazione Militare Speciale» non sarebbero stati vani.

Se non proprio la pace, quantomeno un accordo per un cessate il fuoco in Ucraina è senza ombra di dubbio una buona notizia, ma forse l’unica.

Sempre ne La Grande Scacchiera, Brzezinski scrive che «l’Europa è la testa di ponte essenziale dell’America sul Continente eurasiatico». Senza il controllo sull’Europa gli Stati Uniti sarebbero infatti solo una Potenza regionale in un Continente alla deriva tra gli Oceani. È per questo motivo che Washington non può fare a meno della NATO. Inoltre non si può correre il rischio di un’Europa che, muovendosi verso la creazione di una difesa comune, sviluppi una propria autocoscienza militare e politica, iniziando a pensarsi indipendente.

L’Alleanza Atlantica serve ancora a «tenere fuori» dal nostro Continente i Russi, «dentro» gli Americani e «sotto»[messi] i Tedeschi, intendendo per sineddoche tutti gli Europei.

Nonostante i toni isolazionisti che alimentarono false speranze nel corso della prima Amministrazione Trump, la presenza complessiva dei soldati statunitensi in Europa aumentò durante il suo mandato. Oggi quei toni sono un’eco lontana, sovrastati dagli impegni imperiali necessari a mantenere le promesse di «Rendere di Nuovo Grande l’America» e rimettere l’«America al Primo Posto», tanto da solleticare la folle idea di impossessarsi della Groenlandia – oltre a prendere il controllo diretto del Canale di Panama e costringere il Canada ad annettersi agli Stati Uniti.

Le continue minacce del Tycoon rivolte contro gli Stati europei – da ultimo la delirante affermazione secondo cui si sarebbe rifiutato di proteggere e avrebbe addirittura incoraggiato la Russia «a fare quello che diavolo vuole», anche invadere i Paesi che non pagano abbastanza – servono per costringerci a sobbarcarci degli enormi costi necessari a mantenere in vita il complesso militare-industriale della NATO. L’obiettivo del 2% del PIL ormai è diventato la soglia minima di spesa per la difesa, reclamata dalla Casa Bianca. Gli Americani potranno così finalmente razionalizzare gli investimenti e operare una migliore allocazione degli sforzi militari in altri quadranti.

La pretesa della redistribuzione delle spese per il mantenimento dell’Alleanza Atlantica va letta come l’imposizione di un equilibrio tra piccole e medie Potenze europee che si annullano a vicenda anziché moltiplicare le proprie forze e ricercare un’autonomia strategica continentale. Sono infatti consolidate le condizioni affinché in Europa non emerga una forza egemone che possa contendere la primazia agli Stati Uniti. Ora Washington può anche dare la parvenza di allentare la pressione politica e militare, purché aggravi la pressione economica su un Continente che sta soffrendo – più di chiunque altro – le ricadute economiche della guerra in Ucraina e di qualsiasi altra crisi internazionale che si sussegue, per mantenerne il controllo coercitivo e impedirne l’emancipazione.

Il principale strumento che Trump userà per esercitare pressione contro l’Europa saranno i dazi, considerati come un metodo di negoziazione alternativo alle sanzioni, per continuare a perseguire gli interessi degli Stati Uniti. Il nuovo Presidente si dice preoccupato dal risultato negativo della bilancia commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. Nel 2023 gli Stati Uniti hanno registrato un disavanzo nei confronti del Vecchio Continente pari a 229 miliardi di dollari e ora la Casa Bianca intende riequilibrare questo rapporto imponendo una tariffa generalizzata tra il 10% e il 20% su tutte le loro importazioni. «Le guerre economiche sono buone e facili da vincere», questa è la convinzione.

Rifiutandosi di continuare a essere i compratori di ultima istanza del surplus commerciale mondiale, gli Stati Uniti accettano di non essere più la Potenza egemone dell’intero sistema internazionale. Sono infatti consapevoli che la globalizzazione – per come l’abbiamo conosciuta – è terminata, che il Mondo sarà sempre più frammentato e conflittuale e quindi pretendono che i loro «clienti» contribuiscano a mantenere la super-Potenza egemone ormai nel solo Occidente allargato.

La prima Amministrazione Trump aveva già preso di mira gli alleati, in particolar modo l’Unione Europea, applicando tariffe del 25% e del 10% rispettivamente sull’importazione di acciaio e di alluminio e aveva minacciato a più riprese di applicare dazi del 25% sui veicoli europei, andando a colpire prevalentemente le industrie automobilistiche in Germania e in Italia, ormai al collasso.

Biden – in perfetta continuità – ha poi condotto una vera e propria guerra commerciale contro l’Europa. Attraverso l’applicazione dell’«Inflation Reduction Act» e del «Chips and Science Act», la Casa Bianca ha introdotto sussidi e misure protezionistiche per rilanciare la manifattura e gli investimenti negli Stati Uniti, andando ad accelerare il processo di de-industrializzazione già in corso nel nostro Continente.

La nuova politica commerciale promessa da Trump sarà l’ennesimo duro colpo alla nostra economia reale. L’Istituto dell’Economia Tedesca prevede che «la guerra commerciale sotto Trump potrebbe costare alla Germania fino a 180 miliardi di euro», mentre uno studio condotto da Goldman Sachs per conto della Banca Centrale Europea stima che le tariffe che saranno imposte dalla nuova Amministrazione ridurranno il già stagnante Prodotto Interno Lordo dell’AreaEuro di un ulteriore 1%.

Un altro obiettivo sarà quello di continuare a indebolire il ruolo dell’Euro, considerata da Washington – ancora oggi – l’unica moneta che per stabilità e fiducia internazionale può proporsi come alternativa al Dollaro. La guerra in Ucraina è servita anche a questo. La Banca Centrale Europea ha infatti informato che «nel 2023 la quota dell’Euro nelle riserve ufficiali di valuta estera detenute a livello mondiale è diminuita», favorendo principalmente il Dollaro e lo Yen. Come se non bastasse, da Francoforte avvisano che la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare a causa delle «misure relative alle sanzioni» che l’Unione Europea continua a rinnovare contro la Russia.

Alla Casa Bianca si vuole un’Europa politicamente, militarmente ed economicamente annichilita, che diventi compratore delle merci prodotte sull’altra sponda dell’Atlantico, come già sta avvenendo per gli approvvigionamenti energetici. Dalla riesplosione della guerra in Ucraina, gli Stati Uniti hanno infatti superato la Russia come esportatore di gas nel Vecchio Continente. La minaccia di chiudere i rubinetti sarà un’ulteriore arma di ricatto che il Tycoon userà per piegarci alla sua volontà.

GLI STATI UNITI E IL MEDIO ORIENTE

L’approccio che l’Amministrazione Trump avrà in Medio Oriente sarà orientato dalla grande rivoluzione energetica in corso in America. Non ci riferiamo alla transizione verso fonti considerate «rinnovabili» – che a oggi è più una trovata propagandistica, che non una realtà fattuale – bensì al fatto che gli Stati Uniti sono diventati tra i principali produttori ed esportatori di combustibili fossili. Grazie alla tecnica della fratturazione idraulica, si è aperto l’accesso per lo sfruttamento delle vaste riserve ancora presenti nel loro sottosuolo. Il potere e l’influenza della Casa Bianca e del Dollaro non sono più dipendenti dal petrolio e dal gas estratto nella Penisola Arabica e l’OPEC+ non è più in grado di condizionare – e sconvolgere – il mercato internazionale dell’energia come invece era solita in passato.

Washington non ha quindi più la necessità strategica di mantenere una presenza militare consistente in Medio Oriente e mira a mantenerne il controllo, ma da remoto. Con la collaborazione di Israele e sfruttando la conflittualità in atto, si vorrà imporre un nuovo ordine nella Regione, a cominciare dalla riproposizione e dall’estensione degli «Accordi di Abramo», promossi da Trump nel 2020.

Proprio gli «Accordi di Abramo» devono essere il punto di partenza per comprendere le cause alla base della riesplosione del conflitto tra Israeliani e Palestinesi.

Il contenuto degli «Accordi» non è particolarmente rilevante, si tratta di un documento diplomatico alquanto retorico nel quale – in sostanza – si afferma la promessa di un non ben definito impegno a perseguire «una visione di pace, sicurezza e prosperità in Medio Oriente e nel Mondo». L’eccezionalità risiede nella forma, perché la sottoscrizione – sotto la supervisione degli Stati Uniti – da parte di Israele, del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti, poi estesa al Marocco e al Sudan, implica de facto il riconoscimento dello Stato di Ebraico, fino a quel momento negato dalla maggioranza del Mondo Arabo e Musulmano.

L’intento esplicito degli «Accordi» è di accompagnare Israele e le Monarchie del Golfo verso una graduale normalizzazione dei rapporti, quello implicito è – avvicinandole a Tel Aviv – di isolare Teheran. Sullo sfondo delle crescenti tensioni con l’Iran, Israele ha infatti siglato poi un Memorandum d’Intesa con il Bahrein per la cooperazione in materia di sicurezza e un contratto con gli Emirati Arabi Uniti per la vendita di un sistema di difesa aerea.

L’Arabia Saudita era a un passo dalla sottoscrizione degli «Accordi» e questa decisione avrebbe modificato radicalmente i rapporti di forza nella Regione. Nell’Agosto 2023 il Jerusalem Post pubblicò un’analisi intitolata: «Gli «Accordi di Abramo» possono essere il precursore di un accordo tra Israele e l’Arabia Saudita».

L’Iran ha potuto – e dovuto – far leva sull’odio contro l’«Entità Sionista» per convincere Hamas e altre milizie armate palestinesi minori presenti nella Striscia di Gaza a sferrare l’attacco del 7 Ottobre 2023, con l’obiettivo di dimostrare al Mondo Arabo la vulnerabilità di Israele e convincerlo a non delegargli la sicurezza della Regione.

Inquadrando le dinamiche in questa prospettiva si spiega pienamente la risposta spropositatamente violenta di Tel Aviv. Le intenzioni genocidarie contro i Palestinesi non sono mancate tra le fila dei fondamentalisti sionisti che hanno composto il Governo, ma il calcolo del Primo Ministro – Netanyahu – è molto più razionale. Israele ha invaso, devastato e occupato la Striscia di Gaza e ha intenzionalmente esteso il conflitto su più fronti – in Cisgiordania, in Libano, in Iran, in Iraq, in Siria e nello Yemen – per affermare il proprio primato militare in Medio Oriente e ristabilire la propria credibilità presso gli Arabi, questi ultimi per nulla intenzionati a farsi coinvolgere nelle ostilità né tantomeno a cercare il martirio in nome della causa palestinese.

In un discorso tenuto di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 27 Settembre 2024, Netanyahu ha esposto la sua visione, imponendo di scegliere tra «la maledizione dell’incessante aggressione dell’Iran o la benedizione di una storica riconciliazione tra Arabi ed Ebrei», ricordando che «un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele sembrava più vicino che mai, ma poi è arrivata la maledizione del 7 Ottobre». Mentre parlava mostrava al pubblico due mappe, una – quella della cosiddetta «maledizione» – che raffigura in nero la «Mezzaluna Sciita», ovvero quegli Stati che rientravano nella sfera d’influenza dell’Iran e l’altra – quella della «benedizione» – che raffigura in verde gli Stati che hanno sottoscritto o sono in procinto di sottoscrivere gli «Accordi di Abramo», con una particolarità, una freccia che parte dall’India e attraversa la Penisola Arabica puntando verso l’Europa.

Si tratta del «Corridoio Economico India – Medio Oriente – Europa», nel cui disegno Israele sarà l’affaccio sul Mediterraneo e la proiezione verso l’Europa. Nel 2023 – a margine del G20 – gli Stati Uniti, l’India, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Francia, la Germania, l’Italia e l’Unione Europea hanno siglato un Memorandum d’Intesa in cui si impegnano a collaborare per la sua realizzazione. Questo «Corridoio» – già ribattezzato «Via del Cotone», perché pensato come infrastruttura tecnologica e commerciale alternativa alle «Vie della Seta» proposte dalla Cina – punta a «stimolare lo sviluppo economico attraverso una maggiore connettività e integrazione economica tra Asia, Golfo Arabico ed Europa».

Ecco la vera posta in gioco in Medio Oriente, che si estende ben oltre le sorti della Striscia di Gaza.

L’Arabia Saudita è la chiave per la realizzazione del nuovo assetto voluto per il Medio Oriente. Il ripristino dei rapporti diplomatici concordato con l’Iran attraverso la mediazione della Cina a Marzo 2023, i crescenti rapporti con Pechino e l’ostinazione della soluzione «Due Popoli – Due Stati» per porre fine al conflitto fra Israeliani e Palestinesi potrebbero essere posizioni assunte da Riyad al fine di farle pesare in fase di negoziato per la sottoscrizione degli «Accordi di Abramo», verso cui i Sauditi tendono. Questi ultimi sono interessati e ingolositi dalle prospettive economiche dell’apertura della «Via del Cotone», utile nella loro «Visione» per diversificare le entrate del Regno dai combustibili fossili.

L’Arabia Saudita pone il riconoscimento dello Stato della Palestina – affidato all’Autorità Nazionale Palestinese, spodestando Hamas – come precondizione per l’agognata normalizzazione dei rapporti con Israele. «È la creazione di uno Stato della Palestina indipendente che produrrà i dividendi che cerchiamo», vale a dire «stabilità regionale, integrazione e prosperità» ha scritto il Ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita in un editoriale pubblicato dal Financial Times.

Solo così si spiega il raggiungimento di una seppur fragile e precaria tregua a Gaza. La collaborazione tra l’uscente Amministrazione Biden e l’entrante Amministrazione Trump è riuscita a imporre a Tel Aviv un accordo per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. La Casa Bianca pone in secondo piano la conquista territoriale di Gaza e l’eliminazione di Hamas, nonostante ciò metta a rischio la tenuta del Governo Netanyahu – con la fuoriuscita della frangia più intransigente – ma l’urgenza della normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita deve prevalere sulle mire espansionistiche dello Stato Ebraico.

La nuova Amministrazione degli Stati Uniti – confermata dalle nomine negli incarichi governativi – vorrà affidare a Israele, ma solo in collaborazione con l’Arabia Saudita – in una logica di equilibrio tra Potenze – il controllo del futuro ordine del Medio Oriente e l’onere del mantenimento del nuovo status quo contro qualsiasi avversario che possa minacciarlo. Un esperimento già testato nell’Aprile 2024, in occasione dei bombardamenti diretti lanciati dall’Iran contro l’«Entità Sionista», dove i Sauditi hanno collaborato all’intercettazione dei missili e dei droni che hanno sorvolato il loro spazio aereo.

Questo processo potrebbe passare attraverso un innalzamento delle tensioni contro l’Iran, al quale – già amputato dei suoi proxies – deve essere impedito di ottenere un arsenale nucleare. Nel 2018 Trump pose fine alla partecipazione degli Stati Uniti al «Piano d’Azione Congiunto Globale» e impose le sanzioni precedentemente revocate, ma ora potrebbe addirittura permettere il bombardamento degli impianti di arricchimento dell’uranio pur di annichilire definitivamente Teheran. Il Times of Israel ne è convinto: «L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti offre un’opportunità senza precedenti per eliminare la minaccia che Israele deve affrontare dall’Iran». La politica di «massima pressione» e il contenimento sempre più aggressivo contro l’Iran potrebbe anche provocare – direttamente o indirettamente – una «Primavera Persiana», una «Rivoluzione Colorata» che minaccerebbe di rovesciare lo Stato degli Ayatollah e il potere dei Pasdaran.

Nell’equazione del nuovo ordine mediorientale non si può trascurare l’incognita Turchia, Stato membro della NATO, ma determinata a perseguire i propri interessi strategici, non sempre convergenti con quelli degli Stati Uniti, né tantomeno di Israele. Il «Comitato Nagel» – la Commissione Governativa guidata dall’ex Capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e incaricata di formulare indicazioni per rinnovare il bilancio della difesa e la strategia di sicurezza nazionale – ha avvertito che Tel Aviv dovrebbe prepararsi a un confronto diretto con Ankara. Le ambizioni neo-ottomane e pan-turaniche della Turchia sono considerate in aperto contrasto con quelle dello Stato Ebraico e nel medio-lungo periodo potrebbero diventare una minaccia maggiore rispetto a quella rappresentata dall’Iran, a maggior ragione dopo che i «Ribelli» – eterodiretti e protetti da Ankara fintantoché erano arroccati nella Provincia di Idlib – hanno preso il controllo della Siria.

GLI STATI UNITI E LA CINA

Repubblicani e Democratici sono concordi nel considerare la Cina come la più grande minaccia per gli Stati Uniti. Alla Casa Bianca sanno che il Dragone è l’unica grande Potenza in grado di sfidare la «supremazia» di Washington e la nomina di Rubio a Segretario di Stato sembra indicare il deciso ri-orientamento dell’America verso l’Indo-Pacifico per contenere le crescenti ambizioni di Pechino.

Il «Pivot to Asia» venne lanciato da Obama, ma fu la prima Amministrazione Trump a inaugurare la guerra commerciale contro la Cina. Con la motivazione di «incoraggiare» la Repubblica Popolare ad abbandonare le pratiche considerate «sleali» in materia di tecnologia e innovazione, ma soprattutto per costringerla ad «aprire il suo mercato ai beni degli Stati Uniti e accettare relazioni commerciali più equilibrate con gli Stati Uniti», a partire dal 2018 si è dato inizio a un susseguirsi di dazi e contro-dazi che hanno colpito praticamente tutti i settori strategici e commerciali. Si è calcolato che in totale sono state imposte tariffe su circa 550 miliardi di dollari di merci cinesi e 185 miliardi di dollari di merci statunitensi.

Nel 2020 Washington e Pechino sottoscrissero un «Accordo Commerciale di Fase Uno», il quale prevedeva una regolazione in merito ai temi della proprietà intellettuale e del tasso di cambio dello Yuan, inoltre impegnava il Dragone ad «aumentare le importazioni di beni [prodotti manifatturieri, prodotti agricoli, energia] e servizi americani di almeno 200 miliardi di dollari». L’«Accordo» aveva però lasciato in vigore le tariffe esistenti e la Repubblica Popolare non rispettò gli obiettivi fissati, che erano eccessivamente sbilanciati in favore dell’America.

In piena continuità, «in risposta alle pratiche commerciali sleali della Cina e per contrastare i danni che ne derivano» l’Amministrazione Biden decise di prolungare i dazi ereditati dal Tycoon, estendendoli a ulteriori ambiti di importanza strategica, tra cui spiccano tariffe del 25% sull’alluminio, del 50% sui semiconduttori e addirittura del 100% sui veicoli elettrici, poiché – secondo la Casa Bianca – Pechino «sta inondando i mercati globali con esportazioni a prezzi artificialmente bassi».

A seconda di quanto si aggraverà la competizione con la Cina e la conseguente guerra commerciale, Trump ha minacciato tariffe tra il 60% e il 100% qualora i BRICS si impegnassero nella creazione di una valuta comune per scardinare il primato internazionale del Dollaro.

La questione più delicata nei rapporti tra Washington e Pechino ruota però attorno a Taiwan. Per uscire dalla propria dimensione regionale e tellurica e poter così proiettare la propria influenza economica, politica e militare su scala globale, la Cina continentale deve a ogni costo prendere il controllo di Taipei, de jure ma non de facto soggetta alla sovranità cinese. L’isola di Formosa costituisce infatti un avamposto dell’Occidente, una portaerei terrestre perennemente ancorata di fronte alla costa che impedisce al Dragone l’accesso diretto all’Oceano Pacifico.

Il Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, nonché Presidente della Repubblica Popolare Cinese – Xi Jinping – ha ambiziosamente fissato la data della «completa e pacifica riunificazione nazionale» entro il 2049, ma si dice pronto anche all’uso della forza pur di porre fine all’indipendenza di Taiwan.

Nonostante gli Stati Uniti abbiano adottato la «One China Policy», ovvero riconoscono la sovranità di Pechino su Taipei, con il «Taiwan Relations Act» Washington si è comunque impegnata a garantire la difesa dell’Isola in caso di attacco. Trump sembra intenzionato a portare avanti questa «ambiguità strategica» e continuare a fornire assistenza militare. Nel corso del suo primo mandato aveva venduto armi a Taiwan per un valore di circa 18 miliardi di dollari, oltre il doppio del valore fornito dalla successiva Amministrazione Biden.

La Casa Bianca è consapevole che il contenimento aggressivo della Cina deve partire proprio da Taiwan e dal provocare il «disaccoppiamento» delle relazioni commerciali con l’Unione Europea – come già ci è stato imposto nei confronti della Russia – andando così a sabotare la «Belt and Road Initiative» – il progetto infrastrutturale delle moderne «Vie della Seta» – che ha come suo terminale proprio il nostro Continente. Nel 2023 il nostro interscambio con il Dragone si aggirava intorno ai 738 miliardi di dollari.

Non a caso negli ultimi anni anche la NATO ha iniziato a rivolgersi sempre più spesso verso l’Indo-Pacifico, tanto che il nuovo «Strategic Concept» riconosce esplicitamente la Repubblica Popolare Cinese come una minaccia, così da costringerci a intraprendere ostilità politiche, economiche e forse perfino militari contro Pechino. Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone sono invece ormai diventati partner permanenti dell’Alleanza Atlantica.

La nuova Amministrazione non sembra orientata verso la ricerca di un’escalation nei suoi rapporti con la Cina, ma il peso della crescita esponenziale del debito pubblico – prossimo alla cifra record di 36.000 miliardi di dollari, in aumento al ritmo di 1.000 miliardi di dollari ogni 100 giorni – potrebbe rivelarsi insostenibile per il bilancio federale e una crisi del debito, magari accelerata da chi – come Pechino – potrebbe rifiutarsi di continuare ad acquistare ingenti quantità di Titoli di Stato statunitensi, imporrebbe la necessità di scaricare al di fuori dei propri confini le criticità che altrimenti minaccerebbero di far collassare l’America su se stessa.

CONCLUSIONI

Gli scenari appena descritti non divergono, anzi approfondiscono le dinamiche e le prospettive analizzate nel nostro quaderno «L’Europa – Nel Nuovo Mondo Multipolare».

Gli Stati Uniti continueranno a perseguire i propri interessi, anche a discapito dei loro più stretti alleati, pur di mantenere il rango di unica super-Potenza nel sistema internazionale. Le antipatie e i timori che la Casa Bianca nutre nei confronti dell’Europa, rimasti abilmente celati durante l’Amministrazione Biden, saranno resi manifesti dalla retorica minacciosa che contraddistingue la comunicazione di Trump. L’aggravarsi dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico dovrà essere la spinta a rivendicare la nostra indipendenza, perché sarà sempre più ampia ed evidente la divergenza di interessi tra noi e l’America.

La concreta eventualità di raggiungere quantomeno un cessate il fuoco in Ucraina aprirebbe uno spiraglio che consentirebbe all’Europa di ristabilire normali rapporti diplomatici ed economici con la Russia. Se Trump e Putin possono negoziare una tregua, sarà però solo l’intervento diplomatico e politico dell’Europa a trasformare quella tregua in una pace effettiva e duratura.

Bruxelles e i singoli Stati membri non devono quindi cadere nell’errore di insistere in una «una politica pazza e dalla vista corta», poiché non vi sarà né pace né prosperità nel nostro Continente fintantoché continueremo ad alimentare l’ostilità contro il Cremlino.

Gli Stati Uniti hanno la necessità di orientare i loro sforzi imperiali verso altri teatri e la nuova Amministrazione potrebbe spingere gli Europei a stanziare un contingente militare in Ucraina per monitorare il rispetto del cessate il fuoco. Sarà una prova di maturità per l’Europa. Dovremo approfittare di questa occasione e della momentanea distrazione della Casa Bianca per gettare le fondamenta di un sistema di sicurezza alternativo alla NATO e per emanciparci finalmente da Washington.

Ampliando lo sguardo oltre il nostro Continente, noi Europei dobbiamo iniziare a definire e perseguire una nostra specifica politica estera comune nel Mediterraneo e nel Medio Oriente allargato, inoltre non possiamo più permettere che siano gli Stati Uniti a stabilire quali saranno i nostri rapporti con la Cina, imponendoci un nuovo antagonismo contro Pechino, come già successo con Mosca. In altre parole dobbiamo ricercare una nostra autonomia strategica in un nuovo Mondo multipolare.